L'UOMO E L'INDUMENTO
«Che cosa è una moda? Da un punto di vista artistico, di solito è una forma di bruttezza talmente intollerabile da doverla cambiare ogni sei mesi.» −Oscar Wilde
Se all’inizio dei tempi il coprirsi era necessario alla sopravvivenza, coi tempi la nudità è diventata un nemico, un niente con qualche sfumatura edonistica. Ancora successivamente è diventato il simbolo di uno status. Attualmente, pur mantenendo ancora il legame con chi la persona è e cosa la persona fa, è una competizione. Non riguarda più la valorizzazione del corpo, ma dell’indumento stesso.
L'UOMO E L'INDUMENTO
L’uomo non indossa più. Si tratta invece di sovrapporre il vestito a se stessi. È come se fossimo sempre nudi – ma in ogni caso nascosti. “Come un individuo getta degli abiti logori per indossare nuovi vestiti, così l’anima incarnata abbandona le dimore corporee rovinate per entrare in altre nuove”.
Dopo la rivoluzione digitale è impossibile tenere il passo col mondo. Ogni secondo è già obsoleto. Lo stesso è successo con la moda. Eppure è curioso constatare come essa sia sempre ricorsiva: recupera sempre il suo passato, ma più velocemente. Si stagna dinamicamente.
Un esempio rilevante è quello dello streetwear o della corrente così definita hypebeast. Hypebeast nasce come brand di urban fashion, ma è diventato un vero e proprio fenomeno culturale. Il suo scopo latente non è altro che creare accumulazione compulsiva in chi compra i suoi prodotti: principalmente destinati ad una demografica maschile: avere tutto o essere niente. E per quanto riguarda la donna, o per meglio dire, l’immagine della donna, è cosa nota che il settore del fashion – dall’haute couture al fast fashion – abbia plasmato indelebilmente la sua percezione.
Certo, è innegabile che si siano fatti grandi passi in questo senso: molte case di moda hanno introdotto, soprattutto a livello di social media, la rappresentazione di un ventaglio più ampio di corpi, sia maschili che femminili.
Ma il punto chiave rimane: dov’è l’essere umano nelle foto di modelli che vediamo? Com’è possibile relazionarci con qualcosa di statico come un’immagine in un mondo che cambia così repentinamente? Senza contare i risvolti non-etici di questa velocità.
LO SLOW
Tra gli scandali di Nike e dei loro bambini-lavoratori e il crollo del Rana Plaza in Bangladesh avremmo dovuto sviluppare un’attenzione maggiore a ciò che compriamo – e a ciò che indossiamo. Non è stato così. Ma le cose si stanno muovendo. Il movimento slow, tanto nella moda quanto nel cibo, nell’architettura, nel turismo, si sta facendo strada da quando questo termine venne coniato da Kate Fletcher, docente presso il Centro di Fashion Sostenibile per il London College of Fashion. Presto questo modo di pensare si è esteso al di fuori del mondo anglofono per fare breccia ovunque e, soprattutto, in Italia, grazie alla sua solida tradizione artigianale. E Slow+Fashion+Design ha preso le redini di questo movimento con l’obiettivo di restaurare il nostro passato e portarlo ad un punto dove l’uomo possa reimparare a conoscersi in ciò che crea, in ciò che abita, in ciò che indossa. Cosa vuol dire, dunque, essere slow?
Essere slow vuol dire aderire ai reali ritmi umani; vuol dire permettersi il silenzio e accettare il vuoto.
Restiamo lenti. Nessuno ci corre dietro fuorché noi stessi.
Slow+Fashion+Design ringrazia per la collaborazione Rebecca Boati e Ruggero Saccon dello studio GO-TO di Pieve di Soligo.
Web Writer e copyright © Rebecca Boati e Ruggero Saccon.