L'UOMO E L'ARCHITETTURA
«C’è stato un tempo in cui ho creduto che la cultura nascesse e si sviluppasse come manifestazione spontanea di un dialogo in atto tra l’uomo e la natura, quasi di un rapporto di mutua e amorosa comprensione tra una madre e il proprio feto […]. A conti fatti, posso dire di essermi parzialmente illuso. Non si è trattato di due realtà in accrescimento reciproco, ma di un rapporto unidirezionale di prevaricazione; tantomeno si può parlare di un vero e proprio “dialogo” […], ma di una monologante e allucinata sequela di insulti.» − A. Zanzotto
Trovare il modo di coabitare il più serenamente possibile con la natura non è un problema nuovo.
«Risultato dell’arte del costruire dovrebbe essere una poetica serenità anziché una “efficienza” mortale» affermò Frank Lloyd Wright – lo stesso Wright che fondò e coltivò quella branca dell’architettura definita organica.
Cos'è l'organicismo?
In sociologia si definisce organica una società che si struttura biologicamente (alle cellule corrispondono gli individui, agli apparati le istituzioni) e che rifiuta ciò che non risponde alla natura umana. Allo stesso modo, l’architettura organica rifiuta la superficialità e l’individualismo in virtù di un approccio olistico. L’obiettivo, in entrambi i casi, è l’equilibrio.
L’equilibrio per chi, però? Per cosa? Nonostante le innegabili spinte sorte da questo tipo di visione – si veda la nascita della bioarchitettura –, i buoni intenti nascondono ancora il palese antropocentrismo.
Lo scopo è umanizzare l’abitazione, non naturalizzarla; non è salvaguardare la natura di per sé, ma come unico spazio in cui la vita può fiorire. L’ecologismo nasce, com’è umano che sia, egoista. Temiamo l’ambiente senza di noi, anche se solo senza di noi potrebbe, forse, ritornare a prosperare. È un’altra reazione alla paura della morte, morte da tempo laicizzata fino a rendersi uguale al vuoto.
Anche Wright, probabilmente, realizzò che quest’iniziale programma da lui ideato per l’edificazione delle prairie houses (significativamente rappresentante anche in film come Blade Runner) fosse paradossale. E da questo ripensamento nacque la Casa sulla cascata. La Casa Kaufmann arriva all’estremo della dicotomia uomo-natura, sottomettendo il primo alla seconda. Ne sono simbolo i suoi pavimenti, costituiti dalla stessa pietra su cui scorre la cascata. Questa pietra non fu levigata, ma rimase irregolare; tant’è che l’arredamento al suo interno dovette essere costruito a sua misura. Un esempio sono le sedute, le cui gambe hanno altezze diverse così da non traballare sulla superficie diseguale.
Modulor Man
Wright, però, pensava perlopiù da architetto; mentre per portare avanti un progetto veramente olistico serviva la mente da urbanista di Le Corbusier – e del suo Modulor Man.
Il Modulor è un neo-uomo vitruviano; il suo nome nasce dall’unione tra la parola modulo e or, cioè oro, essendo un modello basato sulla sezione aurea. Le Corbusier, infatti, grande studioso della teoria della proporzione di Leon Battista Alberti, tradusse esteticamente e pragmaticamente una matematica definibile antropomorfa. «Fare architettura, è fare una creatura», dichiarò il francese. Il suo punto di partenza era l’”uomo medio” (183 centimetri di altezza, 226 considerando un braccio alzato).
Il suo punto di arrivo era l’Unité d’Habitation, complessi edili che integrassero tanto l’individuo quanto la collettività. Ma nonostante il rigorismo geometrico e l’antropocentrismo, Le Corbusier stesso arrivò a rinnegare il suo “uomo medio”. «Il Modulor, me ne infischio! Quando non va, non bisogna applicarlo» esclamò, quando i suoi dipendenti cominciarono a riprodurne acriticamente le misure.
Eppure concettualmente il Modulor è qualcos’altro ancora, è qualcosa che ritorna sempre al punto di partenza di questa breve dissertazione: non è forse un ennesimo modo di razionalizzare il rapporto uomo-natura? E non è forse significativo che il Modulor non sia altro che una sagoma, una linea chiusa?
Le unità abitative “a misura d’uomo” di Le Corbusier si delineano anche per un altro fattore: i loro tetti verdi, ovverosia dei moderni giardini pensili. Nel pentalogo scritto con Pierre Jeannert l’urbanista, a ragion di causa, ne individuava le enormi potenzialità; potenzialità riscontrate dagli studi successivi. I giardini pensili riducono l’inquinamento dell’aria (20% in meno), l’inquinamento acustico, le escursioni termiche e lo spreco di energia (8%).
Approccio ecologico
Sia Wright che Le Corbusier, dunque, si avvalsero di un approccio ecologico. Ma se Wright era più letterale nell’intenderlo come un adattamento ai ritmi e all’estetica della natura, Le Corbusier si avvicinò di più alla sua concezione moderna di lotta agli effetti di un’antropizzazione sempre più incontrollata.
Nel presente si è giunti alla sintesi di questi due pensieri. Mi riferisco al Villaggio Eni di Borca di Cadore. Costruito secondo quello che sembra essere il modello del Modulor (era infatti destinato ad accogliere i dipendenti Eni durante le loro vacanze), integra però anche il concetto di biomimesi della Casa sulla Cascata. Le abitazioni ricalcano i pendii montuosi e sono praticamente invisibili all’occhio esterno, immerse come sono tra gli alberi.
Pare, insomma, che la lotta ecologica attuale si sia svincolata – per quanto possibile – dall’istinto di sopravvivenza intrinseco all’umanità in favore di un corretto dialogo con l’ambiente; almeno in ambito architettonico.
Slow+Fashion+Design ringrazia per la collaborazione Rebecca Boati e Ruggero Saccon dello studio GO-TO di Pieve di Soligo.
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